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Dove cammina il mio destino, c'è un filo di paura

La strana storia di Cervo Bianco, dall’America alle Alpi
Cervo Bianco
Cervo Bianco

Dove cammina il mio destino, c'è un filo di paura [1]

 

Edgardo Laplante, alias Chief White Elk, alias Cervo Bianco, alias Tewanna Ray è il protagonista di questa storia di quasi cento anni fa: ancora oggi leggendone le (dis)avventure[2] viene da chiedersi se fosse uno spavaldo avventuriero, un semplice truffatore o uno svitato.

Il sedicente principe canadese Cervo Bianco arriva in Europa dagli Stati Uniti nei primi mesi del 1923: sbarca in Inghilterra e si sposta nel continente tra Belgio, Francia, Italia e Svizzera, portando in tournée il suo spettacolo di danza e allo stesso tempo sostenendo la causa delle popolazioni native americane. Il giornale di Bruxelles “La Nation Belge” nel febbraio del ’24 ottiene un appuntamento con White Elk nel suo hôtel di Parigi (dove è approdato per presentare al Consiglio della Società delle Nazioni le rivendicazioni del suo popolo) e lo descrive come “una figura energica, dai tratti accentuati e caratteristici, uno sguardo diritto e vivo, il naso arcuato, […] un gran fascino nel suo costume nazionale”.

Cervo Bianco

Già nell’autunno dello stesso anno è in Italia: anche qui i giornali, locali e nazionali, non tardano a notare il “rude profilo che pare inciso nel rame” dell’“uomo del giorno” (“L’Ambrosiano”, 10 settembre 1924) nonché la sua generosità nei confronti della “folla numerosissima” (“La nazione-Cronaca di Firenze”, 4 settembre 1924) che sempre lo attende fuori dai lussuosi alberghi in cui risiede nelle città che visita. A Torino arriva in treno il 28 ottobre e quella sera stessa presenzia alla commemorazione della Marcia su Roma: il suo entusiasmo per il partito è testimoniato dalle numerose tessere fasciste emesse nel 1924 a suo nome e da molte fotografie, alcune delle quali, insieme al suo costume da capo indiano, sono conservate nell’Archivio del Museo di Antopologia Criminale Cesare Lombroso di Torino, poiché il professor Mario Carrara, erede di Lombroso nell'insegnamento e nella direzione del museo, durante il processo a Cervo Bianco venne incaricato di redigerne la perizia psichiatrica.

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A cambiare il corso degli eventi è l’incontro di Cervo Bianco con le contesse austriache Melania e Antonia Khevenhüller, madre e figlia che, affascinate dall’americano e dalla sua storia avventurosa, gli consegnano a più riprese somme ingenti, convinte si tratti di un prestito che verrà ripagato al più presto dal ricco principe il quale, invece, considera il denaro come un omaggio, a fondo perduto.

La vicenda processuale di Laplante è innescata dalla denuncia per frode sporta da Antonia a Lugano, dopo che Laplante si era rifugiato in un ospedale di Bellinzona nel dicembre 1924 perché affetto da sifilide. Il primo processo si apre dunque alla Corte delle Assise Correzionali di Lugano e si conclude nel luglio del 1925 con la condanna a un anno di detenzione, al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni a favore delle parti lese.

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Contemporaneamente alla denuncia sporta in Svizzera, nel febbraio del 1925 viene presentata a suo carico anche una querela alla Procura di Trieste, cui fa capo Fiumicello, luogo di residenza della famiglia Khevenhüller dove Cervo Bianco è stato a lungo ospitato.

Dall’interrogatorio che Laplante subisce a Trieste in fase istruttoria si ricavano molte informazioni riguardanti la sua vita prima dell’arrivo in Europa: Edgardo dice di essere figlio di Arturo Laplante e di Virginia Domingue, “nato il 16 marzo 1888 in Powtucket, Stato di Rhode Island (Stati Uniti di America del nord), ammogliato con Ethel Holmes, con un figlio a nome Leslie d'anni 10, residente in Powtucket, 18 Hitton street, nullatenente, mai punito, tranneché recentemente dal Tribunale di Lugano (Svizzera), con sentenza 2 luglio 1925 per truffa, artista di cinema”.

La Sezione d'Accusa presso la Corte d'Appello di Trieste nell'aprile del 1926 dichiara l'incompetenza a giudicare dal momento che gli ultimi “atti consumativi del reato sono stati perpetrati a Torino” e ordina la trasmissione delle carte processuali alla Procura presso il Tribunale del capoluogo piemontese. Il processo si sposta quindi a Torino ed ecco spiegato perché la documentazione si trova in Archivio di Stato.

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Il Tribunale di Torino condanna Laplante alla reclusione per cinque anni, sette mesi e quindici giorni (viene esclusa la seminfermità mentale) e a una multa di L. 9.000, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei Khevenhüller. L'imputato ricorre in appello, ma nemmeno l'appassionata difesa dell'avvocato Bevinetto e il successivo ricorso in Cassazione gli eviteranno la condanna. Le memorie del suo difensore nella causa d'appello riportano altri particolari della vita di Laplante: apprendiamo infatti che, a suo dire, alla morte della madre aveva ereditato il titolo di “chief” che apparteneva al nonno, capo di una non meglio identificata tribù di indiani e che, dopo aver abbandonato la carriera militare in Marin a causa della perdita della vista da un occhio, si era trasferito a New York, dove era entrato a far parte di una compagnia lirica che portava in giro per l'America esibizioni con canti e danze indiani. Lo spettacolo aveva avuto un tale successo negli Stati Uniti che la Paramount aveva deciso di portarlo anche in Europa; prima tappa del gran tour, l'Inghilterra.

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Come si conclude la vicenda di Cervo Bianco? Abbandonato da tutti, gli resta accanto solo l’avvocato Bevinetto che, per ripagarsi l’onorario, scrive una biografia autorizzata di questo principe immaginario.

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Una volta scarcerato Laplante torna negli Stati Uniti dove muore nel 1944.

La Stampa” il 13 ottobre 1926 titola “Il pellerossa condannato” e conclude con queste parole il resoconto della sentenza emessa il giorno precedente a Torino: “Così ha fine questo romanzesco film di lungo metraggio. Cervo Bianco spennacchiato a Lugano, è stato definitivamente liquidato a Torino nel giorno della solenne celebrazione della scoperta dell’America. Egli l’America era venuto a scoprirla in Europa…”.

 

Questo articolo ha tratto spunto dalla lettura degli atti del processo di Cervo Bianco, organizzata nel 2009 dall’Archivio di Stato di Torino, a cui hanno partecipato Roberto Cazzola, Ernesto Ferrero, Giulia Polacco e Maria Paola Niccoli.

Le immagini sono tratte dal fascicolo processuale conservato presso l’Archivio di Stato di Torino.

 

[1] Il canto del servo pastore, dall’album L’indiano di Fabrizio De Andrè, 1981.

[2] Archivio di Stato di Torino, Tribunale civile e penale di Torino, Fascicoli processuali penali, n. 2043, 1926.